È colpa di Berlusconi, dei politici, di questo governo; no, è colpa dei giornali, delle tv, dell’opposizione, della magistratura, della crisi, delle banche, dell’euro, della società, di internet… Ci sono probabilmente pochi paesi al mondo come l’Italia e pochi popoli che, come quello italiano, hanno fatto della declinazione di responsabilità un vero e proprio modus vivendi. Nessuno che ammetta i propri errori, tutti a dire che la colpa è sempre di qualcun altro. Nessuno è colpevole. Tutti assolti.
No, non sono solo gli italiani ad essere così, il problema, ancora una volta, è vecchio come il mondo. Tutti conosciamo la storia del giardino dell’Eden. Eva, tentata dal serpente, mangia il frutto proibito e lo offre anche a Adamo, che lo prende e mangia. A questo punto Dio interroga prima Adamo e poi Eva: “Hai forse mangiato del frutto dell’albero che ti avevo comandato di non mangiare?» L’uomo rispose: «La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato». Dio il SIGNORE disse alla donna: «Perché hai fatto questo?» La donna rispose: «Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato».” (Genesi 3:11-13). La donna incolpa il serpente, l’uomo la donna e, indirettamente, Dio (“la donna che tu mi hai messa accanto”). Primo errore e primo, tragico e grottesco, scaricabarile. E quel modello si è perpetuato fino ad oggi.
Abbiamo però nella Bibbia anche esempi molto positivi. Daniele era un giovane ebreo che visse all’epoca degli imperi babilonese e persiano. Daniele era un uomo molto amato da Dio (Daniele 9:23; 10:11; 19) perché fedele in ogni circostanza. Era anche irreprensibile agli occhi degli uomini, che non potevano trovare in lui nulla da rimproverargli (Daniele 6:3-4). Eppure, quando si rivolge a Dio per intercedere per i peccati commessi da Israele, non si tira fuori, non dice “è tutta colpa degli altri”. Capisce che siamo tutti sulla stessa barca e che ognuno ha delle proprie responsabilità, che avrebbe forse potuto agire diversamente, che avrebbe forse potuto essere di esempio. Ed ecco allora che include anche se stesso nel modo scellerato di agire del suo popolo: “Noi abbiamo peccato, ci siamo comportati iniquamente, abbiamo operato malvagiamente, ci siamo ribellati e ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue prescrizioni.” (Daniele 9:5).
Stessa cosa fa Nehemia, anche lui non direttamente colpevole di quello che Israele aveva fatto e dello stato di degrado in cui aveva lasciato Gerusalemme dopo la sua distruzione da parte dei babilonesi. Eppure anche lui si rivolge a Dio in questo modo: “O Signore… Siano i tuoi orecchi attenti, i tuoi occhi aperti per ascoltare la preghiera che il tuo servo ti rivolge adesso, giorno e notte, per i figli d’Israele, tuoi servi, confessando i peccati dei figli d’Israele: perché abbiamo peccato contro di te; abbiamo peccato io e la casa di mio padre.” (Nehemia 1:5-6).
Ancora una volta la Parola di Dio ha molto da insegnarci sulla natura umana e su come dovremmo comportarci. La confessione, l’ammissione delle proprie colpe, sta alla base del nostro rapporto con Dio. Dio è pronto a perdonare tutti coloro che non cercano di nascondere le proprie colpe.
Se ancora non crediamo in lui, ricordiamoci di queste parole: “Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia.” (Proverbi 28:13).
Anche il nostro rapporto con gli altri trae enorme beneficio dall’ammissione delle nostre colpe: “Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha una grande efficacia.” (Giacomo 5:16).
Se crediamo in Lui, non esiste colpa che non possa essere perdonata, basta riconoscerla e confessarla: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità.” (1 Giovanni 1:8-9).