Due fatti recentissimi, la morte di Gheddafi e quella di Simoncelli, ci portano a fare una considerazione su quanto ci si stia abituando a vedere le immagini di persone morte o che stanno per morire. Dopo un primo momento di disagio o di tristezza (o magari, come nel caso di Gheddafi, addirittura di euforia - vedi il “wow!” di Hillary Clinton alla notizia o i festeggiamenti in Libia), quanto effetto ci fa rivedere quelle scene il giorno dopo? Le ultime guerre sono ormai atti vissuti quasi in diretta, così come molte catastrofi naturali. Corpi devastati da bombe, altri straziati da un terremoto; corpi riversi sull’asfalto dopo un incidente, ecc. Passata l’emozione del momento, cosa rimane nelle nostre menti, nei nostri cuori di quello che abbiamo visto? Aldo Grasso, critico TV, commentando questi fatti si domanda: “non è che ormai una sorda assuefazione ci avvolge e ogni tanto gridiamo allo scandalo solo per salvarci la coscienza?” (da http://www.corriere.it/ del 26.10.2011).
Anni fa chi scrive è stato oggetto, involontario, di un esperimento. In un’aula era stata posta una foto, terribile, di profughi ormai scheletrici, in fuga da una devastante carestia. Era stata messa lì affinché potessimo riflettere sulla condizione umana, sulla sofferenza altrui. Messa lì anche perché provassimo ad avere compassione (= ‘soffrire insieme’). All’inizio fu certamente quello il mio sentimento e di quelli che erano con me. La foto rimase appesa lì per molte settimane. Era impossibile non vederla, posta com’era a ridosso dello stipite della porta. Eppure, dopo alcuni giorni, io non avrei saputo dire con certezza se la foto era ancora lì o se era stata tolta. Il constatare questo mi ha fatto raggelare il sangue.
Fa veramente impressione, e sgomento, come si riesca velocemente ad abituarsi quasi a tutto. Non solo alla morte sbattuta in prima pagina, ma anche al linguaggio scurrile e offensivo dei politici (parliamo di loro in quanto rappresentanti del popolo e, almeno in linea teorica, guide ed esempio per tutti), alla corruzione dilagante, a varie forme di perversione e violenza. Si sta alzando, pericolosamente e rapidamente, il nostro livello di accettazione di tutto questo, arrivando ben presto a quella che la Bibbia definirebbe una coscienza “cauterizzata” (1 Timoteo 4:2)[1].
Un altro brano della Scrittura (Isaia 33:15), parlando del giusto che scamperà al giudizio di Dio, lo definisce in questo modo:
“Colui che cammina per le vie della giustizia e parla rettamente; colui che disprezza i guadagni estorti, che scuote le mani per non accettare regali, che si tura gli orecchi per non udire parlare di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male”
Una persona quindi che rifiuta di abituarsi al male, che non accetta di rendersene partecipe.
Chi rimane impassibile davanti alla sofferenza altrui e resta indifferente alla deriva morale, corre il serio rischio di pietrificare sempre di più il proprio cuore, di indurirlo al punto tale che tutto rimbalza, che nulla più vi penetra, non solo il dolore o l’indignazione, ma nemmeno l’amore.
Dio, nell’Antico Testamento, fa una promessa al suo popolo, finalmente riconciliato con lui: “Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.” (Ezechiele 36:26).
Un cuore rigenerato da Dio non rimane indifferente. Pulsa e palpita, sa commuoversi e scandalizzarsi, sa vedere il bisogno e offrire la soluzione. Non la propria, ma quella di Cristo, di colui che “vedendo le folle, ne ebbe compassione” (Matteo 9:36), al punto tale di dare la sua vita per ognuno di noi. Gesù ha pianto davanti alla morte di un amico (Giovanni 11:32-35) e davanti all’indifferenza e incredulità (Luca 19:41; Luca 13:34); ha sconvolto le sue viscere davanti alla sofferenza (Matteo 20:34) e buttato in aria, scandalizzato, i tavoli dei venditori al tempio (Giovanni 2:13-16).
Gesù non è stato indifferente e non lo è ancora oggi. La sua soluzione è ancora qui, a portata di mano, in risposta ad un nostro atto di fede nella sua persona. Se lui viene a dimorare in noi allora la sua compassione può diventare la nostra, il suo interesse per l’altro può diventare il nostro, facendo di noi un canale del suo amore, della sua compassione: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione” (2 Corinzi 1:3-4).
Ancora una volta riecheggia l’appello: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (Ebrei 4:7)
[1] Vedi commento nell’articolo “La coscienza pulita”.